Riportiamo l’articolo di Chiara Sità tratto da: https://www.vita.it/definisci-bambino-perche-la-pedagogia-oggi-deve-ripartire-da-qui/
“Definisci bambino”: perché la pedagogia oggi deve ripartire da qui
Chiara Sità insegna Pedagogia della prima infanzia all’Università di Verona nel corso di Scienze dell’educazione. Oggi, alla prima lezione del suo corso, partirà da qui. «Non avrei mai pensato di vivere in un momento storico in cui è necessario partire da questa frase disumana per smontare tutto, prima di poter parlare dell’infanzia», dice.
Ecco perché “Definisci bambino” è una frase che nei giorni scorsi si è trovata per qualche momento al centro delle notizie perché pronunciata in un programma televisivo da Eyal Mizrahi, presidente dell’associazione Amici d’Israele. Mizrahi ha risposto così alla domanda se anche le decine di migliaia di bambini e le bambine uccisi a Gaza fossero da considerarsi terroristi.
Da anni insegno Pedagogia della prima infanzia all’Università di Verona nel corso di Scienze dell’educazione, nel curricolo dedicato ai servizi 0-3. Spesso nelle prime lezioni del corso cerco di sollecitare la riflessione e la discussione con le studenti sugli immaginari di “bambino” e bambina che ciascuna porta con sé. A volte si tratta di ricordi della nostra infanzia, a volte di discorsi assorbiti nel proprio contesto familiare, a volte di immaginari diffusi nei media o nelle narrazioni mainstream. Tutto è importante, perché le nostre immagini di infanzia, come ci ha ricordato la pedagogista Elena Luciano, danno forma ai modi in cui agiamo con bambine e bambini. Nel corso, partire da queste visioni ci aiuta anche a dialogare con le conoscenze scientifiche sull’infanzia e sull’educazione.
Purtroppo, quest’anno sento di dover partire da questa frase disumana: “Definisci bambino”. Disumana perché non sta chiedendo, naturalmente, una definizione scientifica o legale: sta mettendo in dubbio il fatto che a Gaza ci siano effettivamente delle persone bambine, nel senso che noi attribuiamo di solito a questo termine. Questa espressione ci vuole dire, infatti, che quelli che vediamo tra le macerie e nelle tende, a Gaza, non sono propriamente bambini. La negazione dell’infanzia è parte integrante della disumanizzazione delle persone palestinesi operata dalla comunicazione di guerra del governo israeliano. Un’altra parte di questa disumanizzazione è l’uso, sempre da parte israeliana, dell’argomento degli “scudi umani” per giustificare l’uccisione di bambini.
Negare l’infanzia palestinese vuole veicolare un’idea precisa: che la categoria bambini, che noi usiamo per definire una fetta della popolazione a cui è riconosciuto uno status particolare, non si applica a tutte le persone minorenni, ma solo ad alcune.
Lo status particolare di bambini e adolescenti, sancito dalla Convenzione Onu, dice sostanzialmente che nel mondo ci sono persone in una fase specifica della loro vita, che stanno formandosi nel loro corpo, vivono fasi cruciali del neurosviluppo, stanno costruendo tutte le loro capacità, e per sostenere questa evoluzione hanno bisogni specifici, diversi da quelli degli adulti.
Bambine, bambini e adolescenti sono persone verso cui noi adulti abbiamo delle responsabilità (di cura, mantenimento, educazione). È grazie a questo status particolare che abbiamo dei sistemi di tutela dell’infanzia o il diritto/dovere di andare a scuola. È anche grazie a questo che abbiamo potuto lottare contro lo sfruttamento e il lavoro minorile, e avere un sistema penale adeguato all’età e ai bisogni della popolazione minorenne.
La frase “Definisci bambino” ci dice, però, che ad alcuni lo status di bambini non è riconosciuto. Non sono proprio bambini. Oppure lo sono, ma magari fino a una certa età (Quale? 12? 15? Non sappiamo). Alcuni bambini e adolescenti, quindi, possono essere visti e trattati alla stregua di adulti, di terroristi, di complici di Hamas.
Questa operazione non viene fatta solo con i palestinesi; succede anche con i minori stranieri non accompagnati, che hanno affrontato il viaggio della migrazione da soli; succede con le ragazzine vittime di violenza sessuale da parte di uomini adulti ma che poi sui giornali non sono più vittime e vengono chiamate “baby squillo”; succede con i minorenni che commettono reati, verso i quali si invoca una giustizia vendicativa più che formativa. È stato documentato negli Usa, dove i bambini afroamericani o latini per qualche motivo sono considerati (dalle forze dell’ordine o dalla scuola) “un po’ meno bambini” o “un po’ più adulti” dei loro coetanei e coetanee, magari per delle caratteristiche fisiche o perché hanno imparato presto ad arrangiarsi e a prendersi cura dei fratelli più piccoli. L’infanzia bianca e occidentale, invece, non viene mai messa in dubbio: i “nostri” sono sempre bambini, e infatti slogan come “giù le mani dai bambini” e “mio figlio no” non vengono scomodati per i bambini di Gaza.
Questa negazione di status, oltre ad essere razzista, classista e fuori dal perimetro dei diritti internazionalmente riconosciuti a bambini e adolescenti, è anche pericolosa per il tipo di immaginario che costruisce.
Se passasse l’idea per cui alcuni bambini sono “meno bambini” di altri, magari proprio quelli più esposti a situazioni di vulnerabilità, di pericolo per la loro vita e più caricati di responsabilità, allora non saremmo più in grado né di comprenderli quando li incontriamo, né di proteggerli quando necessario; e non saremmo nemmeno capaci di accompagnare la loro traiettoria evolutiva.
Non basta chiederci “che cosa sono” i bambini. In educazione ci chiediamo anche “chi diventano”. Non in un futuro lontano, ma domani, tra una settimana, un mese, tre mesi: come può essere il loro divenire, e come noi possiamo avere cura di questo divenire. Che cosa diventano le bambine e i bambini se togliamo loro i diritti, la speranza, il futuro? Questa è la domanda da fare, non “definisci bambino”.
(Foto di AP Photo/Abdel Kareem Hana)